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SBK, Ramello, Go Eleven: "prendere Iannone è stata una scommessa e a noi piacciono"

L’INTERVISTA – Gianni Ramello: “Iannone è un’idea di mio figlio Elia, mi ha rotto le scatole un mese dopo il TGPOne di Assen. A Imola l’abbiamo incontrato a cena e definito. Sono commercialista e mi considero imprevedibile: dico no e poi faccio sì, senza che la passione mi trascini”

SBK: Ramello, Go Eleven:

In questi anni di Superbike non so quanti momenti ho trascorso in compagnia di Gianni Ramello: centinaia? Migliaia? Sta di fatto che al termine di ogni giornata del weekend di gara, il caffè serale da Go Eleven è una sorta di tappa d’obbligo nel paddock.

Una volta che entri nell’hospitality, Gianni lo trovi seduto in fondo nell’angolo destro, in quello che soprannominiamo come “il tavolo presidenziale”. Solitamente  accanto a lui c’è Denis, suo padre (il Signor Sacchetti) e Daniele che ti accoglie con la classica frase: “Un saluto alla stampa”.

È l’occasione per ritrovarsi, parlare della giornata in pista e non solo, perché tra una sigaretta, una birra e un amaro ci si sposta poi su temi come la cronaca, l’attualità e la politica. Spesso ci si trova su posizioni opposte con Gianni, orgoglioso delle sue radici cuneesi, nonché grande appassionato della storia del nostro Paese e non solo.

Se un domani dovesse decidere di chiudere il team per dedicarsi all’insegnamento della storia nelle scuole non rimarremmo del tutto sorpresi. Siamo però convinti che non lo farà, perché non rinuncerebbe al suo lavoro, ovvero quello di esercitare la professione di commercialista da oltre 40 anni, a capo di uno studio con oltre dieci dipendenti nella sua Cherasco.

La sua storia nelle corse è iniziata nel 2008 arrivando poi nel 2020 a toccare il punto più alto con la vittoria di Rinaldi ad Aragon e il conseguente titolo indipendent vinto Estoril. Nel mentre i momenti di gioia si sono mischiati a quelli di dolore, come nel 2013, quando Antonelli perse tragicamente la vita in Russia. Nel libro “World Superbike, Storie di una Vita”, scritto da Gianni Ramello durante il periodo Covid del 2020, c’è un capitolo dedicato al ricordo di Andrea. Ramello parla dell’impotenza dell’uomo di fronte alla morte di un giovane ragazzo, ma soprattutto del marchio indelebile lasciato da Andrea sul team, il cui testimone oggi si trova per ironia del destino nelle mani di un altro Andrea, che di cognome fa Iannone.

In occasione del weekend di Barcellona abbiamo realizzato questa lunga intervista al numero uno di Go Eleven, ovvero colui che ha contribuito al rilancio di The Maniac dopo quattro anni d’assenza, Gianni Ramello.

Gianni, decidi tu da dove partire…
“Cosa posso dire… Go Eleven è prima di tutto una squadra, ovvero un gruppo di persone, che  io considero straordinarie, dove ognuno è fondamentale per portare avanti il lavoro e consentirne la buona riuscita – ha esordito - la storia del team è partita da me, ma la passione è stata tramandata da mio padre, che quando ero giovane portava in giro me e tutta la famiglia sul sidecar. Diciamo che tutto è scattato da lì, poi l’avventura è continuata sulle due ruote con mia moglie Luciana. Insieme abbiamo affrontato non so quanti viaggi tra Siria, Marocco, Tunisia, Algeria e tanti altri. Come vi ho detto sono partito con la passione per la moto, ovvero il mezzo meccanico in sé, ma trasportarla nelle corse è tutt’altra cosa”.

Molti considerano Go Eleven come una sorta di seconda casa nel paddock.
“La cosa che piace a me è che la gente venga a scoprire e conoscere questo mondo nella sua essenza, perché magari molti pensano che bastano una moto, un pilota e un paio di meccanici per andare in pista. Invece non è così. Io sono uno di quelli che non vuole filtri tantomeno una squadra elitaria. È una cosa che non mi piace, perché non ci rappresenta e non corrisponde alla nostra identità. Magari, guardandoci dall’esterno, la gente si è fatta un’opinione di noi, ma Go Eleven ha fatto un percorso molto più professionale di quanto si pensi, compiendo un passo alla volta perché il rischio economico è importante. Penso soltanto al passaggio da Stock a Superbike dove cambia tutto”.

Questa piccola realtà di Cherasco rimane ad oggi l’ultima ad aver vinto una gara.
“Lo so bene che non possiamo diventare un team ufficiale, ma se lotti con loro e riesci ad essere là davanti in bagarre penso sia un motivo di orgoglio, perché significa che in pista te la stai giocando alla pari. Oltre alla sfida con le moto c’è poi il discorso hospitality. Nel corso del weekend ci sono centinaia di persone a pranzo e cena da noi, infatti è sempre piena. Questo significa che siamo apprezzati”.

Gianni, da quando ti conosco non ti ho mai visto incazzato.  
“Io è meglio che non mi incazzi, perché nel momento in cui schematizzo poi non torno più indietro. Preferisco incazzarmi a casa (scherza). Luciana invece è una che si arrabbia, ma poi le passa tutto. Detto ciò noi siamo modesti e la nostra personalità vogliamo portarla anche nella corse aiutando gli altri. In pista c’è la sfida, ma la rivalità deve spingere a fare del proprio meglio senza doversi scontrare”.

Go Eleven è un team formato famiglia. Anche a casa parlate di moto oppure avete messo delle regole dove è vietato farlo?
“Vuoi o non vuoi ci tocca quasi sempre parlare di moto, perché spesso quanto accade in pista nel weekend te lo porti poi a casa. Si discute ed è normale, perché il mondo è fatto da persone con idee diverse. Molto spesso di litiga, ma a volte lo si fa per il bene dell’altro. In altri casi invece si fanno dei passi indietro perché forse realizzi che una scelta è meglio di un’altra nonostante l’idea di partenza fosse diversa”.

Chi è Gianni Ramello? Stravagante e unpolitically sono termini che si addicono?
"Stravagante direi di sì e aggiungo imprevedibile, perché dico no e poi faccio sì. Aggiungo anche unpolitically correct, perché non temo a esprimere la mia opinione. Sono poi un passionale a metà strada. La mia avventura in questo mondo è nata per la passione, ma serve un filtro affinché la passione non  crei problemi. Dico così perché  se ti fai prendere dalla passione il rischio è che spendi tanti soldi per poi fare cagare e ritrovarti a terra. In questo mondo ci vuole ben poco a tirare fuori un milione di euro senza rendersene conto”.

Parliamo di Iannone. Da dove è nata e come si è sviluppata l’idea di puntare su di lui?
“È nata da mio figlio Elia. Mi ha rotto le scatole per un mese, dicendomi che dovevamo prendere Andrea. Io non ero molto convinto, non perché pensassi che non sarebbe andato avanti, ma perché non è facile gestire un pilota di una certa importanza e una certa fama in un team privato. Puoi andare in difficoltà. Poi c’è stato il TGPOne con Denis, in cui avete detto che Iannone ci sarebbe piaciuto, e da lì abbiamo cercato di avviare i contatti. Dopo di che Andrea è venuto a Misano e ci siamo incontrati per la prima volta. Lui voleva tornare, Denis tentennava, e io a un certo punto ho cominciato a fargli pressione per sentire Iannone e così ci siamo visti a Imola. Lui aveva già le idee abbastanza chiare, perché aveva parlato con Ducati e con Dall’Igna. Ci siamo visti in un ristorante la sera di venerdì e abbiamo concluso il tutto a Imola”.

Come vi trovate con Andrea?
“Portarlo nel nostro team è stato abbastanza facile perché io non sono uno che sta troppo a pensare: se mi metto in testa una cosa devo farla, punto e basta. Quanto a prendere un pilota come lui, da un lato abbiamo valutato il discorso legato alla mediaticità che avrebbe potuto portarci, visto che credo sia il personaggio più riconosciuto di questo paddock. E dall’altro si trattava di una sorta di scommessa e a noi piacciono le scommesse: se ti va bene, hai dimostrato di avere un grande coraggio e le capacità per riuscirci e prendere un pilota di alto livello. Ciò significa che se un domani dovessi ipoteticamente prendere Marquez o Bagnaia sarei in grado di farlo, visto che abbiamo svolto dei test molto buoni con Andrea e ottenuto un podio già alla prima gara in Australia. Riguardo al carattere, io sono uno sincero, dico quello che penso e credo sia un aspetto che premia. Quanto a lui, non sono andato ai primi test, ma in Australia il suo modo di lavorare mi ha lasciato abbastanza sorpreso. È molto impulsivo, fa domande a tutti e ho pensato che sarebbe stata dura. In gara invece mi è piaciuto tantissimo, perché è molto preciso. Non ha uno stile appariscente come può essere Toprak, ma poi il tempo lo vedi. Penso possa fare molto bene con noi sulla Ducati”.

Oltre a essere il proprietario del team Go Eleven, sei anche un commercialista. Quale delle due cose ti dà più grattacapi?
“È più difficile fare il nostro lavoro piuttosto che avere un team. Questo è un gioco a confronto, perché in fin dei conti la moto non la costruisco io, si tratta di ottimizzare le cose e c’è uno schema di lavoro da seguire. Fare il commercialista è molto più complicato, innanzitutto perché c’è più imprevedibilità e poi, per certi versi, è anche più pericoloso perché se fai un errore perdi clienti”.

*intervista redatta in collaborazione con Daniela Piazza

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