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Le Laverda degli anni '90: l'ultimo tentativo (fallito) di rinascita

L'azienda veneta provò a risollevarsi a fine secolo, senza riuscirci. Le moto dell'ultima serie passarono quasi inosservate

Moto - News: Le Laverda degli anni '90: l'ultimo tentativo (fallito) di rinascita

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Laverda, le mitiche moto arancioni realizzate fra le prealpi venete, a Breganze. La storia di questo marchio è ricca di gloria ma anche di momenti bui, come quello che sta vivendo ora, dimenticata dall'industria italiana e senza più spazio sul mercato. Quella che vi vogliamo raccontare oggi non è la storia dei grandi modelli dei mitici anni '60 e '70, ma la quasi sconosciuta rinascita degli anni '90, durata decisamente poco, con tanti rimpianti e occasioni sfumate. 


Il primo contatto con quelle "strane" sportive


Nel 1997 o 98 ero ancora un ragazzino, mi era passato per le mani un depliant di un concessionario Laverda che presentava tutti i nuovi modelli della Casa italiana. Ghost e Formula avevano attirato subito la mia attenzione, al tempo sapevo davvero poco di quest'azienda, non potevo immaginare che le moto in quelle fotografie fossero il risultato del terzo tentativo di risollevare l'azienda, dopo due fallimenti dal '93 al '98, in seguito allo stop di produzione che ha chiuso i cancelli di Breganze sul finire degli anni '80. 
Non mi avevano colpito per la loro bellezza, si trattava di moto dall'estetica modesta e senza troppe pretese, ma più che altro per quel retrogusto esotico che mi ha fatto capire che non si trattava di moto per tutti, niente che riguardava i grandi numeri delle giapponesi e di tutt'altra pasta rispetto al blasone e all'arte in movimento delle Ducati.


La gamma delle Laverda '90


Dopo un primo tentativo di vendita nei mercati nord europei, nel 1998 arrivò l'omologazione per il mercato italiano e il listino contraddistinto da due diverse famiglie: i modelli lanciati all'esordio avevano il telaio in alluminio e motore aria ed olio 650, in seguito furono affiancate versioni con telaio in tubi e il motore 750 con raffreddamento a liquido fu montato solo su modelli con telaio alluminio, anche se ci fu l'eccezione della Diamante 750 con telaio in tubi.
L'architettura dei due cilindri affiancati era storica per l'azienda. Ai giorni nostri è una delle più gettonate dalle case costruttrici, ma negli anni '90 non erano in molti a seguire questo filone, perchè si trattava di qualcosa ancora legato al passato (le vecchie racer inglesi) e che non permetteva lo sviluppo di grandi potenze, in un periodo di ricerca profonda di alte prestazioni. Le cilindrate, a loro volta, erano state scelte per mantenere un filo conduttore con la tradizione, il 750 era nell'anima di Laverda, ma il 650 era più un nuovo tentativo di sfidare le moto più diffuse del mercato, principalmente il Monster. Dal 1995 al 2000 sono state prodotte diverse versioni, molte a tiratura limitata, di questi due propulsori, principalmente sulla base dei modelli Ghost e Sport, moto naked, semicarenate e carenate.


Flop clamoroso, ma nessuno se ne accorse


L'amara realtà è che queste moto non hanno avuto un gran successo. Pur senza avere la pretesa di diventare un punto di riferimento del mercato, le 750 S, SS e Formula non potevano competere con la concorrenza italiana, indicata come competitor soprattutto per il prezzo che oscillava dai 19 ai 23 milioni di lire a seconda delle versioni, in linea con quello delle Ducati 748. Se parliamo di giapponesi, invece, non poteva esserci alcun paragone: benchè più economiche e molto più prestazionali, le sportive d'oriente avevano un target diverso da quello delle moto venete. 
Il prezzo fu un problema soprattutto perchè il prodotto non era all'altezza di quel listino, come confermano le recensioni scettiche dei tester di quegli anni, che alle belle parole spese per la ciclistica (telaio verlicchi, freni Brembo, cerchi Marchesini, sospensioni Paioli) alternavano pessime considerazioni sul comportamento del motore - vuoto e scorbutico ai bassi regimi e poco allungo - e alla povertà di certe soluzioni come la strumentazione poverissima, il design banale e le colorazioni poco curate. Se a questi aspetti contrastanti uniamo un'attività dell'ufficio marketing non all'altezza e un post-vendita incapace di contrastare i tanti problemi del motore settemmezzo (principalmente all'alimentazione), il flop è bello che servito. Dal 2000 l'azienda passò sotto le mani di Aprilia, che dopo aver presentato due prototipi (Lynx 650 e SFC1000) abbandonò completamente il progetto di una rinascita.


Una 750 S su strada, una visione


Pochi giorni dopo aver sfogliato quel depliant ho aguzzato la vista, cercando ovunque almeno una traccia di quelle moto. Mi sarebbe bastato vederne una parcheggiata, potermi avvicinare a una Ghost Strike o a una Formula e dare un riscontro reale alle immagini di quei pochi fogli di carta. 
Sono passati davvero parecchi anni prima di vedere nella mia città qualcosa del genere, e quella visione non la dimenticherò mai. Mentre aspettavo il bus per andare a scuola, mi passò davanti una motociclista con tuta nera lucida, aderentissima, e casco nero con visiera scura. Le sue curve mi avevano stordito, ma non mi hanno impedito di riconoscere la moto, una 750 S riverniciata interamente in rosso, senza scritte o loghi. 
Tuttora ci penso, potrebbe essere stato uno scherzo giocato dal caldo della tarda primavera sarda, ma quella fu l'unica volta che vidi una Laverda degli anni '90 su strada. Sarà anche per questo episodio che per me rimangono fra le più interessanti ed esotiche moto di fine secolo, passate in sordina quando erano sul mercato e dimenticate nel giro di poco. Sull'usato "te le tiran dietro", è ormai risaputa la scarsa affidabilità di quei motori e l'impossibilità di recuperare molti dei ricambi necessari. Anche questo contribuisce a una fine ingloriosa.


 


 

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